Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; son passati attraverso il tempo e attraverso di me, come il vino attraverso l’acqua, e hanno alterato il colore della mia mente”
Emily Brontë
Una continua ricerca di identità si affaccia tra le tele del maestro Giordano Floreancig, abile demiurgo del colore, capace di evidenziare, attraverso continue e incostanti metamorfosi, la natura più nascosta dell’io. Dissolvenza, indeterminatezza e disorientamento dello spazio celano sotto la densa materia una profonda ricerca della verità intrinseca nell’uomo, capace di germogliare nelle condizioni più inaspettate o quando sembra troppo tardi perché possa essere possibile. È il contrario di Narciso, completamente dedito alla contemplazione della bellezza, è un’indagine delle screpolature mutevoli della superficie, un’incessante ricerca degli abissi in cui si rischia quotidianamente di precipitare, un invito a oltrepassare l’apparenza per indossare la sostanza. L’artista sa che precarietà e incertezza caratterizzano la vita dell’uomo, che spesso corre il pericolo di sacrificare la propria autonomia e la propria coscienza a un volere comune che non appartiene alla sua natura, diventando un rigido automa dai contorni definiti. Non a caso, uno degli alter ego di Floreancig risulta essere Pinocchio, metafora efficace dei faticosi tentativi dell’uomo di ricongiungersi con la propria consapevolezza. Come Pinocchio nella balena, come il profeta Giona e il capitano Achab, l’artista insegue l’ombra di se stesso e si ritira in un luogo solo in apparenza mostruoso, funzionale all’evoluzione dell’essere. Il mutamento non può avvenire che dentro, in una dimensione ritirata e vera, che genera sulla tela forme che mantengono strette parentele con l’art brut, violente, spontanee, magnetiche. L’opera diviene per Floreancig il ventre della balena, una dimensione acida all’interno del quale la materia viene distrutta per essere trasformata in energia, veicolando nuovi contenuti; un luogo interiore e segreto, cuore delle cose, dove l’identità si sappia costruire. I sogni più segreti, le paure, le emozioni attraversano lo spazio della tela alterando il colore della mente e rendendola capace di regalare una bellezza inusuale e difforme, unica come ogni presenza umana e forse, proprio per questa sua unicità, in parte anche del tutto sola. Una volta tornata visibile, questa identità combattuta, tesa come sostiene Bauman nello sforzo di colmare il divario tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, si trova nuovamente nelle condizioni di ricercare i riferimenti per una ricostruzione di senso, che le sveli qualcosa su se stessa. Il focus dell’artista sulla figura umana invita dunque a ripercorrere, attraverso la progressione pittorica, l’incessante e ciclico bisogno contemporaneo di elaborare e costruire un’identità che sia dovuta a libere scelte, non al colmare vuoti sociali o relazionali. La tela diviene territorio dell’instabilità umana, della necessità di continuo cambiamento, di attiva metamorfosi: in uno spazio delimitato la storia di un individuo trova e contemporaneamente perde le sue coordinate di riferimento, tenta di rintracciare la verità in una stanza di specchi che ne riflettono il volto deformato. Pure, nonostante la dissolvenza, le figure di Floreancig mantengono viva nella memoria la presenza di un’apparizione improvvisa a una finestra in un giorno di pioggia, fuggevoli come il dorso bianco di una balena che si inabissi o i contorni di una fata che scompaia, palesandosi come fantasmi di antenati o parti di noi stessi la cui presenza turbi e faccia sentire al sicuro, confermando le nostre radici, le nostre volontà e per esteso la nostra esistenza. Infiniti volti, urli muti e penetranti, nuove ipotesi di maschere, le opere di Giordano Floreancig ridefiniscono i contorni dell’uomo, lo invitano a porsi la domanda che si poneva Emily Brontë attraverso uno dei suoi personaggi: “a che scopo esisterei, se fossi tutta contenuta in me stessa?”.