Perché volare? Semplice. Non sono felice a meno che non ci sia un po’ di spazio tra me e la terra.
(Richard Bach)
È un canto di antiche sirene, quello narrato da Alberto Gallerati: una pittura capace di toccare le corde più profonde dell’anima fino a instillare nel cuore un desiderio di partenza. È un tenue canto d’amore, ammantato a volte di giocosa ironia, è un desiderio inespresso di intrinseca malinconia; è nostalgia, dolore di casa che cela un’inesausta volontà di partenza. Un solido impianto narrativo accoglie e svela i segreti del sogno, popolato da perturbazioni dell’ordine reale, capace di condurre l’uomo in un viaggio onirico che è prima di tutto un itinerario all’interno di sé stesso: racconti di terra e di mare affabulano gli occhi e il cuore, conducendo in luoghi interiori in cui illusioni, disincanti, paure e speranze diventano contemporaneamente oggetto e soggetto, in un delicato interscambio formale capace nel contempo di disorientare e di proteggere le più intime verità. Indugia, il pennello di Gallerati, sul confine tra sogno e realtà, che viene rivisitato in chiave poetica, assumendo connotazioni visionarie; traccia una linea tra la terra e il cielo, per creare uno spazio in cui tutto possa accadere, all’interno del quale i protagonisti siano sempre gli occhi di chi guarda, invitati a oltrepassare la soglia del riconoscibile per recarsi all’interno del desiderio. Il marinaio può decidere di abbandonare la divisa, l’angelo può disfarsi delle ali: accettare di seguire lo sguardo dell’artista significa riappropriarsi della propria natura, accogliere un annuncio inaspettato portato da un essere alato, seguire un’ammaliante creatura marina dalle fattezze femminili, divenire padroni del proprio sogno e del proprio destino. Il viaggio va affrontato con fiducia, ci ricorda Gallerati: esiste qualcuno disposto a salvarci dagli squali, si trovano alberi sotto quali trovare riparo, isole deserte per chi agogna la solitudine e la quiete, case fresche con tende mosse da un vento leggero in cui essere accolti. Non esiste il pericolo di smarrirsi, solo quello di anelare nuovamente all’altrove senza avere il coraggio della partenza, rischiando di rimanere nel limbo di staticità destinato all’Eveline di Joyce, già protagonista di un racconto narrato in terza persona. Il sogno non va sognato ma vissuto, in un momento artistico capace di consegnarlo all’eternità, che corrisponda a un consapevole risveglio. Il surreale con il quale l’artista si confronta, facente parte di una cultura radicata nel suo territorio di provenienza, viene rielaborato alla luce di una propensione ironica che rimanda alla Neue Sachlichkeit tedesca, in un approccio pittorico che permette di ridefinire i contorni di un presente incerto senza rinunciare a coglierne la nascosta bellezza. A fare da filtro tra verità e rappresentazione resta il ricordo, appoggiato sul bordo della realtà come un cappello dimenticato, una presenza fuggevole, una nitida fotografia. Con rara sincerità espressiva Alberto Gallerati, abile funambolo del presente, guida l’uomo alla scoperta di mondi possibili, dentro e fuori di sé.